Nel cuore pulsante di Bologna, tra i vicoli carichi di storia e i profumi inebrianti della cucina tradizionale, si cela un luogo magico: Al Cambio. È qui, in questo santuario del gusto e dell’ospitalità, che bordeggia come un ketch inglese Piero Pompili, un uomo la cui vita è un romanzo appassionante, intriso di amore, dolore, resilienza e una profonda umanità.
Raccontare Piero Pompili in un numero di righe ragionevole, è davvero impresa ardua. Le parole e gli spunti si susseguono, l’intensità della persona travolge il personaggio come un torrente in piena. La figura dell’oste contemporaneo, elegante ma non ingessato, rispettoso dell’ospite ma mai dimesso servitore, gli calza a pennello, come un cucito di alta sartoria napoletana. Doppio petto blu d’ordinanza, ultime attenzioni alla sala prima del servizio, poche raccomandazioni ai suoi ragazzi. Via, si va in scena.
L’intervista a Piero Pompili
Chi è Piero Pompili?
“Chi sono? Una domanda che mi pongo spesso anch’io. Sono un uomo che ha dedicato la sua vita all’ospitalità, un oste, un narratore di storie, un amante della bellezza e del buon cibo. Ma, soprattutto, sono un essere umano, con le sue fragilità, le sue gioie e i suoi dolori. Un uomo che ha imparato a vivere intensamente, a non dare nulla per scontato e a mettere sempre al primo posto le persone”.
Nel tuo libro “Nato Oste”, ti metti a nudo, condividendo la tua vita senza filtri. Cosa ti ha spinto a intraprendere questo viaggio interiore e a esporlo al mondo intero?
“È stato un processo lungo e travagliato (sospira profondamente). Inizialmente, non pensavo che la mia storia potesse interessare a qualcuno. Mi sembrava così ordinaria, così piena di alti e bassi, di momenti di gioia e di dolore. Poi, mi sono reso conto che la mia storia è anche la storia di tanti altri, di chi ha lottato, amato, perso e si è rialzato. Volevo dare voce a chi lavora nell’ombra, a chi si sacrifica per rendere felici gli altri. E poi, volevo lasciare un’eredità, un messaggio di speranza e di coraggio. Volevo dire al mondo che non siamo soli, che le nostre fragilità sono anche la nostra forza e che l’amore è l’unica cosa che conta davvero”.

Piero Pompili: oltre ciò che appare
In “Nato Oste”, racconti con una profondità toccante del tuo compagno Arnaldo e della sua lunga malattia. È stato difficile rivivere quei momenti, riaprire quelle ferite?
“Molto difficile. Ma anche catartico (racconta con la voce emozionata, ndr) Arnaldo è stato l’amore della mia vita, il mio mentore, il mio compagno di viaggio. La sua malattia è stata una prova durissima, una tempesta che ha scosso le nostre vite. Ma ci ha anche insegnato il valore del tempo, della resilienza e dell’amore incondizionato. Scrivere di lui è stato un modo per tenerlo vivo, per onorare la sua memoria e per condividere la sua straordinaria umanità. Arnaldo era un uomo di una gentilezza e di una saggezza rare, un faro nella mia vita. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile, ma il suo ricordo è una luce che mi guida ancora oggi”.
Il funerale di Arnaldo, quella chiesa gremita di persone venute da tutta Italia per dargli l’ultimo saluto.
“È stato un momento indimenticabile, un addio commovente e solenne. Vedere tutte quelle persone, tutte quelle storie che si intrecciavano, mi ha fatto capire quanto Arnaldo fosse amato e quanto la sua vita avesse toccato le vite degli altri. Era un uomo che sapeva ascoltare, consigliare, confortare. Un uomo che aveva un sorriso per tutti e una parola buona per ognuno. È stato un addio doloroso, ma anche un tributo bellissimo alla sua memoria, un riconoscimento del bene che aveva seminato nel mondo”.
La tua vita è stata segnata da gioie e dolori, successi e sconfitte. Qual è la lezione più importante che hai imparato lungo questo cammino?
“Ho imparato che la vita è un viaggio imprevedibile, fatto di alti e bassi, di svolte inaspettate e di prove difficili. Che il dolore fa parte della nostra esistenza, che le ferite possono essere profonde e laceranti, ma che possiamo sempre trovare la forza di rialzarci, di guarire e di andare avanti. Ho imparato che l’amore è il motore di tutto, che le persone sono la cosa più importante e che il successo non è nulla se non lo condividi con chi ami, se non lo metti al servizio degli altri. Ho imparato che la felicità non è un traguardo da raggiungere, ma un modo di vivere, un atteggiamento interiore, una scelta quotidiana”.

Quel legame tra l’oste e le persone
Parliamo del tuo lavoro, di Al Cambio. Come hai trasformato un ristorante in difficoltà in un locale di successo, un punto di riferimento per la cucina bolognese?
“Con passione, dedizione e una visione chiara. Ho sempre creduto che Al Cambio potesse diventare un punto di riferimento per la cucina bolognese, un luogo dove le persone si sentissero a casa, coccolate e felici. Ho puntato sulla qualità degli ingredienti, sulla cura dei dettagli, sull’eleganza del servizio e su una comunicazione efficace. Ma, soprattutto, ho messo al centro le persone, sia i clienti che i dipendenti. Ho creato un ambiente di lavoro positivo, dove ognuno si senta valorizzato e rispettato, e ho cercato di trasmettere questa positività anche ai clienti, facendoli sentire speciali e benvenuti”.
La tua filosofia di gestione è molto incentrata sulle persone. Potresti approfondire questo aspetto?
“Credo che le persone siano il cuore di qualsiasi attività, soprattutto nella ristorazione. Un ristorante non è solo cibo, è un’esperienza, un incontro, uno scambio. E per creare un’esperienza memorabile, devi avere un team affiatato, motivato e felice. Cerco sempre di creare un ambiente di lavoro positivo, dove ognuno si senta valorizzato e rispettato, dove le idee siano ascoltate e le competenze riconosciute. E cerco di trasmettere questa positività anche ai clienti, facendoli sentire speciali e benvenuti, offrendo loro un’esperienza autentica e non artefatta, un momento di gioia e di convivialità”.
Sei molto attivo sui social media. Come utilizzi questi strumenti, e che ruolo hanno nella tua interazione con il pubblico?
“I social media sono un’arma a doppio taglio. Possono essere un veicolo di odio e di superficialità, ma anche uno strumento di connessione, di condivisione e di crescita. Io cerco di utilizzarli in modo positivo, per raccontare la mia storia, per promuovere il mio lavoro, per condividere le mie passioni e per interagire con le persone. Cerco di essere autentico, trasparente e ironico, senza prendermi troppo sul serio. Voglio che le persone vedano chi sono veramente, con i miei pregi e i miei difetti, le mie gioie e i miei dolori. Voglio creare un legame, un dialogo, uno scambio”.
Piero Pompili e la ristorazione oggi

Hai una visione molto critica della situazione attuale della ristorazione. Quali sono le tue maggiori preoccupazioni?
“Sì, sono preoccupato. Vedo troppa improvvisazione, troppa superficialità, troppa attenzione all’apparenza e poca sostanza. Vedo una crisi del fine dining, una mancanza di personale qualificato e una difficoltà a valorizzare il lavoro in sala. Credo che il futuro della ristorazione sia nella cucina tradizionale, ma rivisitata e di alta qualità, e nell’attenzione al servizio, all’accoglienza e alla relazione con il cliente. Credo che dobbiamo tornare alle radici, ai valori autentici dell’ospitalità, alla passione per il cibo e per le persone”.
Cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere questa carriera, che spesso viene vista come faticosa e poco gratificante?
“Di studiare, di viaggiare, di fare esperienze, di coltivare la curiosità e la passione. Di non avere paura di sporcarsi le mani, di fare sacrifici e di mettersi in gioco, di non inseguire le mode, ma di trovare la propria strada, la propria voce, il proprio stile. E soprattutto di mettere sempre al primo posto le persone, di essere umili, gentili e generosi. E di non dimenticare mai che questo è un lavoro bellissimo, che può dare grandi soddisfazioni, ma che richiede anche tanto impegno e tanta dedizione”.
Hai parlato anche di questioni personali, come la tua omosessualità. Come ha influenzato la tua vita e la tua carriera?
“Non ho mai nascosto chi sono. Credo che l’autenticità sia fondamentale, sia nella vita privata che nel lavoro. So che la mia omosessualità ha creato qualche problema, qualche pregiudizio, qualche critica. Ma non mi sono mai lasciato condizionare. Ho sempre seguito il mio cuore, la mia verità, la mia strada. E sono orgoglioso di essere chi sono. Credo che la diversità sia una ricchezza, un valore aggiunto, e che ognuno di noi abbia il diritto di essere se stesso, senza paure né vergogne”.
Uno sguardo al futuro
Hai anche espresso una visione critica nei confronti della politica italiana, per quanto riguarda la mancanza di attenzione al settore agroalimentare e dell’ospitalità. Cosa ti preoccupa di più?
“Sono molto deluso. L’Italia è un paese ricco di eccellenze enogastronomiche, di tradizioni culinarie, di risorse umane. Ma non riusciamo a valorizzare questo patrimonio, a tutelare i nostri prodotti, a sostenere i nostri ristoratori, a formare i nostri giovani. La politica è troppo spesso miope, distante dalla realtà, incapace di comprendere le esigenze del settore. E questo è un grande peccato, perché stiamo perdendo un’opportunità unica di crescita, di sviluppo e di benessere. Dovremmo investire di più nella formazione, nella promozione, nella tutela delle nostre eccellenze. Dovremmo creare un sistema che sostenga e valorizzi chi lavora nel settore, che incentivi la qualità e l’innovazione”.
Piero, qual’è il tuo sogno più grande per il futuro della ristorazione italiana?
“Il mio sogno è che la ristorazione italiana torni ad essere un punto di riferimento per il mondo intero, un modello di qualità, di autenticità, di passione. Nei miei sogni vive una ristorazione che metta al centro le persone, il territorio, la tradizione, ma anche l’innovazione e la creatività. Sogno una ristorazione che sia sostenibile, etica, inclusiva, che valorizzi il lavoro di tutti, dai produttori ai camerieri, dagli chef ai sommelier. Sogno una ristorazione che sia un’arte, una cultura, un modo di vivere”.
Last, but not least…
E qual è il tuo piatto preferito, quello che ti riporta all’infanzia e ai sapori di casa?
“Ah, la domanda più difficile! Amo la cucina bolognese in tutte le sue forme, ma se devo scegliere, direi la lasagna. La lasagna della mia nonna, quella con la sfoglia verde, il ragù ricco e la besciamella cremosa. È un piatto che mi ricorda l’infanzia, la famiglia, le tradizioni. È un piatto che mi fa sentire a casa, ovunque io sia. Ogni volta che la mangio, mi sento avvolto da un abbraccio caldo e affettuoso, come se il tempo si fermasse e tutto fosse perfetto.

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E mentre il sole si alza alto nel cielo di Bologna, salutiamo Piero Pompili, un uomo che ha fatto della sua vita un’opera d’arte, un inno all’amore, alla passione e alla bellezza. Un uomo che ha saputo trasformare la sua fragilità in forza, il suo dolore in resilienza, il suo lavoro in una missione. Un uomo che ci ha ricordato che la vita è un viaggio meraviglioso, fatto di incontri, di emozioni, di sapori, e che vale la pena di essere vissuto intensamente, fino all’ultimo respiro.
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