Un carrello vuoto della spesa per significare il peso che i consumatori pagheranno per i dazi
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Dazi: cosa sono davvero, tra storia, fallimenti e paradossi attuali

Dazi: tassa o totem? Scopri come funzionano, quando hanno fallito e perché tornano sempre, come certi vinili graffiati del passato.

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Immagina di piazzare un cancello nel vento e poi vantarti di aver chiuso fuori la tempesta. Ecco, questo è un dazio. Mentre il presidente USA Donald Trump annuncia dazi del 20% sulle importazioni dall’UE , l’Europa si prepara a rispondere . Strumento geniale, arma letale o feticcio da economisti nostalgici? Spoiler: tutto insieme. E niente affatto come pensi.

Il dazio: un concetto semplice, un problema complicato

Il dazio è, banalmente, una tassa. Ma è anche un’idea. Una porta che si può chiudere in faccia a una nazione intera. Una protezione per l’industria locale, sì, ma anche un’arma. Più spesso una pistola puntata contro il piede dello stesso paese che la impugna.

Come tutte le invenzioni umane nate nel Medioevo (come le ghigliottine o le doti matrimoniali), anche i dazi godono di una strana immortalità. Cambiano forma, ma non sostanza: ostacolano, selezionano, controllano. Lo scambio libero è un’utopia liberista da conferenza TED, i dazi sono la realtà scomoda da dogana a Malpensa.

Quando i dazi non hanno funzionato?
“I dazi godono di una strana immortalità” (Ph: The New York Public Library)

Quando hanno funzionato? Spoiler: a volte. Ma non come pensi.

  • USA, XIX secolo: i dazi furono fondamentali per proteggere l’industria nascente americana. Alexander Hamilton li sognava come uno scudo per la manifattura giovane e fragile. E funzionò. Per un po’. Poi arrivarono le guerre commerciali, le vendette reciproche, il protezionismo cieco e infine… la Grande Depressione. Fine del sogno.
  • Germania di Bismarck: dazi sui cereali per proteggere i grandi proprietari terrieri prussiani. Risultato? Una classe dominante rafforzata, il pane più caro, e un socialismo che cresceva come gramigna. Alla lunga, più tensione sociale che benefici.
  • Giappone post-’45: niente dazi, ma politiche industriali intelligenti. In pratica, scelsero di non chiudere le frontiere, ma di rendere le aziende talmente buone da non aver bisogno di barriere. Protezionismo 2.0, senza il protezionismo.

Quando hanno fallito? Spesso. Ma in modo creativo.

  • Smoot-Hawley Act (USA, 1930): dazio su 20.000 prodotti importati. Effetto domino globale. Guerra commerciale mondiale. Crollo del commercio. Se fosse un film, si chiamerebbe “Come affondare l’economia mondiale in 10 semplici mosse”.
  • Argentina e Brasile, anni ’70-’80: dazi per proteggere l’industria nazionale. Risultato: un sacco di roba scadente prodotta internamente, inflazione galoppante e gente che faceva la fila per comprare una lavatrice che funzionava solo col piede sinistro.
  • India pre-liberalizzazione (prima del ’91): dazi su quasi tutto. Il mercato era così chiuso che si creava una fila d’attesa di 8 anni per comprare un’auto. Fiat 1100. Nuova. Nell’epoca dei walkman.
Per acquistare la Fiat 1100 in India negli anni'90 ci volevano fino a 8 anni di attesa
8 anni di attesa in India, anni ’90, per una Fiat 1100

Ma allora i dazi servono o no?

Il dazio è l’equivalente commerciale del club privato.

Funziona così:
– Si costruisce una barriera
– Si dichiara che è per il bene di tutti
– Ma in realtà serve solo a tenere fuori gli altri e garantire lo status quo ai soci anziani.
Non importa se dentro il club si serve pessimo whisky e gli stucchi cadono a pezzi: ciò che conta è che fuori fa freddo e qui dentro no.

Potremmo definire i dazi come “una forma raffinata di paura, vestita da patriottismo, servita con un cucchiaino d’alluminio in una porcellana dichiarata italiana”.
I dazi possono funzionare se:

  • sono temporanei
  • sono intelligenti
  • sono parte di una strategia industriale seria (spoiler: nessuno ce l’ha)

Ma nella maggior parte dei casi:

  • diventano una droga da cui i governi non vogliono più staccarsi
  • creano inefficienze
  • fanno pagare di più i consumatori
  • innescano guerre commerciali dove tutti perdono e la Cina vince

Se li imponi come uno zio ricco che vuole insegnare al nipote l’arte della fatica, funzionano.
Se li imponi come un parrucchiere di provincia che vuole “tenere alto il nome della tradizione”, falliscono miseramente. E soprattutto, dipende se hai qualcosa da proteggere. Perché il punto è che i dazi funzionano solo se dentro il castello hai qualcosa di valore. Se non hai industria, innovazione, visione, capitale umano, e ti limiti a chiudere le imposte e spegnere la luce… non sei un paese sovrano. Sei un hotel in dismissione che finge di essere un museo.

Morale?

Il dazio non è il nemico. È lo specchio. Dice: “Non sai competere? Chiudi il cancello.”
Ma il mondo di oggi è fatto di reti, non di confini. Di supply chain, non di barriere.
Eppure — oh, ironia — più il mondo si globalizza, più rispunta il sogno vintage del dazio, come un vinile graffiato di protezionismo anni ’30, remixato con la paranoia post-COVID.
In definitiva, caro lettore, il dazio è uno di quegli argomenti di cui tutti parlano con tono grave e patriottico, ma che — a guardarlo bene — è solo un’altra manifestazione dell’irresistibile bisogno umano di fingere di controllare le cose.

Come quei nobili decaduti che vietano l’uso dell’ascensore ai domestici, mentre il palazzo crolla piano dopo piano.

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Scritto da
Terry Nesti

20 anni nel mondo dei sigari Toscano. Flaneur per convinzione, ma non sempre per possibilità, si ritaglia anche le sue passeggiate all’interno del variegato mondo delle degustazioni; che in qualche modo sono delle passeggiate virtuali attraverso l’Italia, dove si vaga oziosamente (nel senso latino del termine), senza fretta, sperimentando e provando emozioni.

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