La classica pastiera napoletana
Cibo

Misteri a tavola: pastiera e spaghetti, la storia dimenticata

Quella versione della pastiera “con la pasta” è diventata una leggenda sommersa, come i romanzi non pubblicati di Landolfi o le feste segrete della Regina Elisabetta.

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Nel grande teatro della pasticceria italiana, la pastiera occupa un posto tutto suo: regina incrostata di zucchero e leggenda, profumata come una nonna che legge Virgilio e ti corregge il latino. Ma quello che pochi sanno – o che preferiscono dimenticare, come un cugino impresentabile alla cena di Natale – è che c’è stata una versione della pastiera che conteneva gli spaghetti spezzati.

Sì, avete letto bene: spaghetti. Non il grano cotto come in tutte le ricette ufficiali, ma la pasta lunga, quella che si cuoce con il sale grosso e si gira con la forchetta. Solo che qui veniva rotta, maltrattata, immersa nella ricotta e poi cotta nel forno, come se fosse tutto normale. E lo era. Per alcuni.

L’equivoco nasce da una radice antica e linguistica: pastiera non vuol dire “torta con la pasta” nel senso di spaghetti, ma deriva dal latino pasta, cioè impasto. Quindi in origine, nulla di così strano. Ma la mente napoletana – anarchica e geniale come un quadro di Bosch impastato di mandolini – ha trovato modo di reinterpretare il nome in chiave alimentare, con l’inserimento della pasta vera, cotta, scolata, e poi dolcificata. Una soluzione ardita, forse figlia della povertà o, chissà, di una sfida persa a tressette.

Un pastiera speciale con gli spaghetti come ingrediente

Immaginate la scena: Napoli, 1946. Una zia dai capelli raccolti in uno chignon catastrofico, un fornello traballante, e un piatto di spaghetti avanzati dalla sera prima. Non si butta nulla, per carità. Ma che farne? Il grano cotto non c’è. La ricotta sì. E via, con quella logica partenopea che fonde necessità, estro e un pizzico di blasfemia, nasce la pastiera-pasta edition: spaghetti spezzati, zucchero, ricotta, fior d’arancio e canditi. Una bomba identitaria. Una specie di carbonara mistica in versione dessert. E c’è chi giura che fosse buona.

Ovviamente, la pastiera vera – quella riconosciuta dalla Confraternita della Frolla Benedetta – è nata senza spaghetti. Nelle cucine del convento di San Gregorio Armeno, le suore mescolavano il grano cotto nel latte con la ricotta, le uova, lo zucchero e l’acqua di fiori d’arancio per celebrare la resurrezione della primavera. Una simbologia colta, quasi epica: il grano come vita che rinasce, le uova come promessa di fertilità, la scorza d’arancia come sole concentrato. Nessuna pasta. Nessun trucco.

Ma poi, come in ogni buona storia italiana, il popolo ha fatto irruzione. E quando il popolo entra in cucina, succedono cose.

Quella versione “con la pasta” è diventata una leggenda sommersa, come i romanzi non pubblicati di Landolfi o le feste segrete della Regina Elisabetta. Ogni tanto riemerge, tra una cena nostalgica e un pranzo della domenica in cui qualcuno dice: “Mammà la faceva con gli spaghetti” e tutti si voltano, scandalizzati e affascinati come se avesse confessato di fumare il sigaro con il naso.

È una pastiera eretica, sì, ma autentica. Come tutte le eresie, non è nata per distruggere la dottrina, ma per sopravvivere a un mondo che aveva finito il grano cotto. Ma forse è giusto così. Perché ogni vera tradizione, alla fine, è fatta di errori bellissimi.

Ma diciamocelo: se oggi, in pieno delirio da brunch e food porn, qualcuno servisse una pastiera con gli spaghetti, verrebbe probabilmente querelato su Instagram, cancellato su TikTok e arso in effigie su Threads, mentre qualche influencer macrobiotica lo segnalerebbe all’Unesco per crimini contro la frolla.

Spaghetti e Pastiera

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Eppure, dietro quella follia zuccherina c’era una logica antica: sopravvivere col poco, e sorridere anche con il niente. Infilare spaghetti nella ricotta era come dire: “Non ho grano cotto, ma ho immaginazione. E ho fame.” Un atto poetico, spinto al confine tra cucina e delirio, come quei quadri di Arcimboldo che sembrano scherzi e invece sono rivoluzioni.

Certo, oggi lo chef stellato ti direbbe che “è un de-costruito rurale della tradizione”, mentre l’esperto dell’Accademia Italiana della Cucina chiama i carabinieri. Ma intanto la nonna, quella con le dita unte e lo sguardo da filosofa disillusa, ti serve una fetta di pastiera con la pasta e ti dice che non è venuta buona come l’anno scorso, e tu piangi. Piangi perché quella fetta ha dentro tutte le eresie che rendono la cucina una forma di letteratura orale. Una forma di resistenza. Una forma, soprattutto, di libertà.

Che altro è una pastiera, dopotutto, se non un dolce che sa raccontare i suoi errori come fossero miracoli?

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Scritto da
Terry Nesti

20 anni nel mondo dei sigari Toscano. Flaneur per convinzione, ma non sempre per possibilità, si ritaglia anche le sue passeggiate all’interno del variegato mondo delle degustazioni; che in qualche modo sono delle passeggiate virtuali attraverso l’Italia, dove si vaga oziosamente (nel senso latino del termine), senza fretta, sperimentando e provando emozioni.

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