“Critico, ergo sum”: Esodo 3:11 e la Tavola del Nulla (ovvero come un cartone animato di fine millennio ha previsto la gastrofilosofia del XXI secolo e la deriva del foodismo).
C’è un episodio dei Simpson —Stagione 11, puntata numero 3, anno domini 1999, “Guess Who’s Coming to Criticize Dinner?”— che, con l’innocenza beffarda di chi non sa di essere profetico, ha anticipato il modo in cui la critica gastronomica si sarebbe trasformata in un mostro autoreferenziale. Un culto del nulla dove l’atto stesso di recensire un piatto è diventato più importante del piatto stesso. Se oggi si può esistere come individuo unicamente attraverso il filtro della critica—dove la realtà non è più mangiare ma scrivere di mangiare—questo episodio è il nostro Esodo 3:11, il momento in cui il vitello d’oro del foodismo si è rivelato a noi in tutta la sua vuota magnificenza.

La profezia dei Simpson colpisce ancora
L’episodio segue Homer mentre, per un concatenarsi di circostanze improbabili e dunque perfettamente credibili, diventa critico gastronomico per lo Springfield Shopper. Il punto non è tanto che Homer non sappia nulla di cibo—questo lo rende perfetto per il ruolo—ma che il suo successo esploda proprio perché non ne sa nulla. Questo è il primo dogma del foodie moderno: l’inesperienza non è un ostacolo, è un vantaggio. Se il palato esperto è educato e dunque prevedibile, il critico inconsapevole è invece libero di esprimere giudizi assolutamente privi di metodo ma pieni di emozione, e questo, in una società che ha sostituito il pensiero con la performance emotiva, è l’unico vero metro di valutazione che conta.
La sua scrittura diventa virale (prima che il concetto stesso di “virale” esistesse), la città pende dalle sue labbra, la ristorazione locale si adegua alla sua palato-grafomania. Nel giro di pochi giorni, Homer non è più un uomo che mangia e poi, forse, pensa. È un uomo che pensa di mangiare mentre sta già scrivendo di ciò che mangerà. Il piatto non è più un’esperienza sensoriale, ma un concetto che prende forma solo nel momento in cui viene narrato. Si esiste solo attraverso la critica.
La bulimia del foodismo contemporaneo
Homer non è l’unico protagonista di questa parabola: sua figlia Lisa, profetessa dell’intelletto e unica voce di ragione all’interno di un universo che si regge su un equilibrio precario tra caos e mediocrità, diventa la sua ghostwriter. Lisa scrive recensioni che danno forma e dignità a un’arte che, nella mente di Homer, è mera bulimia descrittiva. Ma non è questo il punto: il punto è che l’atto stesso di scrivere di cibo ha ormai più valore del cibo stesso.
Nel foodismo contemporaneo, il cibo è solo un veicolo per la narrazione di sé. Le persone non mangiano più, ma si posizionano rispetto al cibo. È un atto sociale, identitario, una performance da instagrammare con un hashtag strategico. Gli chef non cucinano per nutrire o deliziare, ma per essere interpretati. Ogni piatto è un testo, ogni ingrediente un sottotesto, ogni forchettata un atto esegetico.
Questione di sapore o guerra narrativa?
Homer capisce tutto questo d’istinto, come il vero genio. E quando la sua critica si fa sempre più feroce, il potere lo corrompe. Il pubblico lo acclama. I ristoratori tremano. Springfield si inchina al suo giudizio, perché in un mondo dove il valore è dato solo dalla visibilità, chi controlla il discorso controlla tutto. La cucina non è più una questione di sapore, è una guerra di narrativa. Lo zenit dell’episodio arriva quando l’intera ristorazione di Springfield, vessata dalle recensioni implacabili di Homer, si unisce in una congiura per assassinarlo. Questo è il punto di rottura, la battaglia finale tra chi crea e chi giudica, tra l’atto del cucinare e l’atto del criticare.
Perché, alla fine, ogni cuoco sa che non sta più cucinando per far godere qualcuno. Sta cucinando per essere giudicato, per essere recensito, per essere sezionato da persone che non vogliono veramente mangiare ma vogliono parlare del fatto di aver mangiato. L’unico modo per spezzare il ciclo sarebbe smettere di cercare la validazione del critico. Cucinare senza curarsi delle recensioni. Mangiare senza fotografare. Godere del cibo senza bisogno di esprimerlo a parole. Ma questo, purtroppo, è impossibile. Il foodie è una condizione esistenziale irreversibile. Il foodismo una religione. La recensione è il pasto. Critico, ergo sum.
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